Piccole cose cambiano. Cara pioggia e ritrovare Raymond.

Danila Giancipoli
5 min readOct 6, 2021

Le cose che ami. E la facilità con cui possono diventare coltelli. Un aereo preso per imitare una fuga, e ritrovarsi e non riconoscere la bellezza della pioggia. Chiedersi come agisca l’amore, e come facciano le persone che hanno deciso di avere “fede”. Dov’è che la felicità diventa una costante, dentro, e come riconoscerla fuori? Poi è arrivato Raymond, che mi ha ricordato dei vizi e dei sogni che ho avuto, e che non ho mai smesso di avere.

In aereo ho letto Maledetta Sfortuna di Carlotta Vagnoli, tutto d’un fiato. La violenza dentro quel libro molti non la conoscono, violenza di genere, violenza verbale, violenza fisica, violenza permessa, riconosciuta, culturale. Il concetto di controcultura mi ha affascinato. E ho pensato che atterrare in Olanda avrebbe addolcito quelle parole, ricordandomi la spensieratezza di perdersi tra le vie di una città dove sei uno straniero. Alla fine mi sono sentita quasi come un bandito, alla ricerca di pezzetti di me, che non ho trovato. Ho scritto un articolo sulla disparità di genere da un appartamento più grande del mio, ho sorseggiato del vino toscano in un locale di Utrecht parlando di un bistrot che avrei aperto tra diec’anni. Mi sono chiesta cosa volesse dire guardare la mano del tuo migliore amico cercare la gamba della persona che ama, e quale riconoscibilità diamo ai gesti che ci fanno sentire a casa. Un’adrenalina, un’abitudine, una boccata d’ossigeno. Una voglia di non stare soli? Sono arrivata all’aeroporto di Amsterdam con la convinzione di sapere delle cose, ho riposto giubbotto e magliette su appendiabiti di legno, ho guardato fuori dalla finestra e ho provato nostalgia per quello che avevo lasciato a casa. Per la prima volta avevo lasciato a casa qualcosa. E quindi, cosa c’era di me di fronte ad un canale scuro? Voglia di scrivere. Voglia di vivere. Dolcezza. Un’amarezza di fondo, l’idea che legarsi a qualcosa sia una scommessa della quale non conosciamo il valore.

Quando ho letto Raymond Carver per la prima volta avevo 21 anni. E avevo scoperto che nella biblioteca di Sala Borsa c’erano anche libri normali, non solo quelli per l’università. Libri normali per me voleva dire tutti i libri che non potevo permettermi di comprare. Perchè alla fine, i soldi per il cinema e per i libri sono un lusso, come è un lusso tutto ciò che può renderci felici. Ho trovato “Di cosa parliamo quando parliamo d’amore”. L’ho letto, e folgorata l’ho restituito. Carver non c’è più, come lui anche persone che avrebbero potuto parlare del nostro tempo. Penso ad Oriana. Penso all’alcol e le sigarette che un po’ li hanno spenti. Lo penso sorseggiando un bicchiere di vino, con un senso di colpa che mi attanaglia. Ma quali sono davvero le cose necessarie e quali no? La vita è una scelta, questo è chiaro. Anni dopo ritrovo questo libro in inglese nella libreria di Waterstones ad Amsterdam. Una settimana fa questo libricino mi ha cercato (ne sono sicura), mentre sbirciavo chiedendomi se una versione in inglese di Franzen o McEwan potessero andare bene. L’ho messo in bella vista nel monolocale dove vivo ora, una sorta di piccolo trofeo che aleggia su uno dei tre scaffali sull’unica parete libera. E penso alla mia vecchia stanza bolognese piena di crepe sul soffitto, ma bellissima, dove faceva un freddo incredibile. Caro Raymond, faccio gli stessi errori dei personaggi che hai descritto nei tuoi racconti. Anch’io sto scrivendo dei racconti. Sì, vorrei fossero belli quanto i tuoi. Ma una cosa in comune ce l’abbiamo, credo. Nessuno dei nostri protagonisti vince davvero. E tutti, alla fine, si accendono una sigaretta rodendosi il fegato, alle volte incapaci di decidere, presi dalla noia del fallimento. Ma se ho amato quello hai scritto, sono sicura ci fosse della luce. E mi auguro di riuscire a vederla anch’io, alla fine di questo viaggio che ho intrapreso. E no, non serve prendere un aereo, ma questa è tutta un’altra storia.

Quando sono tornata a Roma quasi due anni fa, avevo il cuore mezzo vuoto. E la testa piena di cose. Responsabilità, malinconia, la certezza che prendere treni fosse stata una pessima idea. Ho desiderato la pioggia ardentemente, e quella torinese mi aveva abbracciato quanto le strade di una Londra che in un momento davvero lontano della mia vita ha significato molte cose. Qui ho trovato il sole. E scrivere è più difficile col sole, ma ho scoperto che amare così è più semplice. Non avevo idea di poter sentire questo calore, di abbracciarlo, nonostante una pandemia e l’idea che dal tetto dei miei genitori non sarei andata via tanto presto. Poi piccole cose sono cambiate, inaspettate, mai richieste. Piccole cose che viste da un altro paese sono grandi, immense. E’ come avere qualcosa di prezioso, di vetro, tra le mani. E continuare a danzare. Giorno dopo giorno, come un funambolo, come chiunque. Un po’ come tutti credo. Perchè non mi venite a raccontare che non danzate, o che non ci provate. Come ha scritto Murakami. Dance, dance, dance. Quello che succede a chi scrive, quando accadono piccole grandi cose, è inspiegabile. Personaggi sconosciuti si addentrano tra le righe, ispirazione e desiderio si infilano nelle parole, e si viaggia a grande velocità sperando di non schiantarsi contro la pagina bianca di chi non ha il coraggio di vedere. Vedere che tutto può succedere, che l’inevitabile è una cosa meravigliosa.

Faccio errori, li colleziono con pazienza e ordine. Da qualsiasi parte del mondo mi trovo, questo è certo. Non so voi, ma non esco da questa infinita lezione che è la vita. Non ho scorciatoie, non mi hanno dato un manuale per tenermi stretta le cose che amo, e ho la stessa indole umana che hanno tutti di provare ogni tanto a distruggere per creare. Mentre bevevo un caffè davvero grande per le vie di Utrecht, mi sono fermata davanti a un paio di artisti di strada, perchè penso davvero che questa cosa sia magica. Soprattutto quando ti perdi. Per cinque minuti il mondo è esistito tra una bevanda calda e una canzone bellissima. Non chiedetemi il nome, perchè non me lo sono scritto. A Londra è stata la volta di Stand By Me. E da un parte, non vedo l’ora di scoprire quale sarà la prossima canzone. Perchè se c’è una cosa che mi sono portata dietro da un sacco di pioggia, cibo pieno di cipolla, e una mensola con una versione olandese di King, è che per scrivere servono esattamente le stesse cose che alla fine servono per vivere. Buona musica, buon caffè, e una sensazione di leggerezza maledettamente sfuggente. E quando tutto finisce, tutto ricomincia. Vi pare poco?

E danzi, ancora. Sperando che l’amore, in qualche modo, qualsiasi cosa voglia dire, possa un po’ salvarti. Ciao Raymond, alla tua.

--

--