I fall in love too easily

Danila Giancipoli
4 min readApr 23, 2021

Una notte a New York.

Ero al sicuro, nel senso che non sapevo.

Ed era anche tardi, forse troppo, troppo nei confronti del resto dei giorni. Struscio le gambe, piano, per scaldarle. Tengo le mani strette al mobile della cucina, lo sguardo sui tetti come a tentare di fare dei sogni non troppo lucidi. Da quant’è che non guardo l’ora? Da quant’è che questo vestito è troppo corto? Eppure non è una di quelle solite sere in cui tutto scivola, per poi svegliarti e rammaricarti. E’ una sera in cui la cucina respira ancora odori, conserva ancora la danza delle sue mani grandi che preparano qualcosa, lì, per me, mentre parlo di quello che voglio, dei poeti, delle cose, delle cose perdute, del possibile. Mentre a tratti mi interrompe e mi chiama per nome. Anna. E questo nome, che adesso non sembra neanche più mio, risuona nella mia testa annebbiato dal vino che dovevo bere. Anna. Anna-Anna. Stringo le mani ancora, chiudo le gambe e guardo il parquet. Dovevo bere perché riesco a comprendere la tenerezza solo quando perdo il controllo, e Gesù, me ne pento a volte. Respiro, sospiro. Chiudo gli occhi e butto indietro la testa. Quanti difetti che ho, dalle parole che non peso ai capelli che abbandono tra le dita di chi ama giocare. E anche queste gambe, sinceramente, vorrei sentirle più mie. Riporto l’attenzione nella stanza, nella penombra notturna sbircio i quadri appesi, i magneti sul frigo, il disordine sul tavolo ancora apparecchiato. Qui tutte le mattine prepara il caffè e sorride, io lo so, sorride perché mi sembra uno che la vita la ama. Ed ecco sì, questa è la cosa che mi ha portato qui. Cos’altro sennò? Sento un rumore, dal soggiorno. Sono le quattro, e New York non dorme. Io lo so, che non dorme. Mi strofino le bocca con indice e pollice, con foga, sento le labbra spaccate e prive di rossetto. Sfioro il mento, con la lingua bagno labbro superiore e inferiore. E’ un sapore amaro, di vino scuro. Di silenzio. Balzo giù dal ripiano della cucina, perché improvvisamente ho voglia di mettere su un disco. Cerco l’involucro dal cartone sottile, ma rigido. Me li aveva fatti vedere la prima volta che mi aveva accolta tra le sue pareti, intime, color sangue, ma bellissime. Guardo gli spigoli consumati. A me piace guardare quegli spigoli consumati, annuisco che nemmeno l’ho messo su, già me lo sento. Con delicatezza e la precisione dei gesti notturni, metto su Chet Baker. Mi busseranno, forse i vicini mi busseranno. Ma sul tavolino accanto al divano è rimasto un bicchiere mezzo pieno e lo butto giù. E poi sul divano c’è lui che apre un occhio e sbircia. Anche lui annuisce, anche lui pensa che sia una buona idea svegliare la notte e disturbare chi non crede in New York City. In punta di piedi, scalza, nelle mie calze ormai di troppo, improvviso qualche passo. Il tappetto sul pavimento è caldo e morbido al tatto. L’unica luce che conosce questa stanza sono i grattacieli, i lampioni. Forse verrà un supereroe stanotte a dare la caccia ai cattivi. Ma sì, penso col bicchiere in mano agitandolo nell’aria, ma sì, anche dieci minuti per infrangere le regole della vita va bene. Ma che dico, l’unica regola possibile è inventare. Come sto inventando questi passi. E lui si mette più comodo e mi guarda. Sorride. Penso che potrei amarlo perché non mi ha chiesto di spegnere la musica. Penso che la prossima volta non avrò nemmeno bisogno di bere, e sapete perché? Perché la felicità è una cosa come nient’altro, peggio di quello che puoi comprare, altroché. Mi avvicino al davanzale e tiro su la finestra. Mi sporgo fuori e respiro il vapore di settembre. I mattoni, i tetti, le sirene, il rumore delle auto che sfrecciano nella notte. Ho come la sensazione che non basti Chet Baker per conquistarla, la notte. Ma io ci provo, brucio ancora per le cose che non posso avere. E New York è un sogno bellissimo che non mi fa dormire. I fall in love too easily. Sento il pianoforte che mi culla l’anima, la tromba, i brividi. Adesso si alza, perché ormai è sveglio, e viene a immaginare la vita con me. Penso. Adesso metto giù il bicchiere e scrivo una poesia. Adesso o mai più. E ancora il pianoforte. Il punto è che in fondo potrei benissimo sopravvivere così, anche se lui non dovesse mai arrivare. Con la musica che pompa il sangue, il freddo che mi punge la pelle, l’alcol che mi consuma, le parole nella testa, il conforto nelle cose del passato. Tipo un pianoforte sì. Ma sì. Scivolo con le braccia lungo il davanzale e quasi mi viene sonno. Dipendente dalla sopravvivenza, schiava di una parvenza di libertà, a caccia di ricordi in città grandi, capaci di contenere tutti i sogni. Ma voi lo sapete che New York è fatta di persone che sono pazzesche, lo sapete? Non importa che lui conosca la mappa del mio corpo, non importa che sappia giocare con i miei capelli, con il mio respiro. Niente vale questa tromba. Faccio no con la testa, ne sono convinta.

Ero al sicuro, nel senso che non sapevo. Non sapevo niente, ed era bellissimo così.

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