Avere una stanza tutta per sé non è sufficiente per capire il femminismo

Danila Giancipoli
4 min readJan 28, 2021

Ieri sera ho guardato il documentario Feminists: What Were They Thinking? (Netflix). Stamattina ho aperto Instagram e ho scoperto che nelle Marche, il centrodestra sta portando avanti una battaglia contro la pillola abortiva. Pochi secondi dopo, leggo che in Polonia è tornato in vigore il vieto di abortire anche in caso di gravi malformazioni del feto. Se ieri sera ero convinta di non aver mai saputo niente sul femminismo, oggi è tutta un’altra storia.

L’attivista Margaret Prescod mi ha rapito con le storie della sua infanzia, ma soprattutto, mi ha ricordato che le battaglie della seconda ondata di femminismo negli Stati Uniti coincisero con le lotte per i diritti civili, spesso innescando vere e proprie sovrapposizioni ideologiche. La libertà delle donne a volte finiva dove iniziavano i movimenti contro il razzismo, e tutti in fondo dovremmo chiederci come doveva sentirsi una donna nera nel bel mezzo di due rivoluzioni in atto. Così, almeno per scostarci per un attimo dai privilegi borghesi e ricordarci che molte di noi in piazza non sono mai scese.

Non so descrivervi la perplessità che mi attanaglia, analizzando il divario tra ciò che una volta era rivoluzione e ora è routine. Il perfezionismo e l’omologazione hanno preso il posto della sisterhood, la percezione stessa del corpo femminile risente di una dimenticanza disarmante. Abbiamo lottato per mostrare il nostro corpo dissociandolo dall’ambiente domestico e dalle ristrettezze sociali a cui era sottoposto. Abbiamo, anzi, è forse la forma verbale più sbagliata, visto che pochissime donne riescono oggi ad onorare l’ardore di quelle conquiste. Regna sovrana la critica, lo svilimento, il disprezzo e la competizione. E mentre rimango affascinata dalla figura così composta e dalle parole di Jane Fonda, ripenso al mia accanimento giovanile nel voler costantemente sembrare più forte, più mascolina, più capace. Più indipendente.

Margaret Prescod. Attivista, autrice, conduttrice radiofonica (Feminists: what were they thinking, Netflix)

Tutte le insicurezze del mondo erano mie, dice la voce fuori campo mentre guardiamo l’attivista Celine Kuklowsky quattordicenne con un caschetto fai da te e le labbra viola di rossetto. E penso a quando durante il covid abbiamo tanto parlato di body shaming, alle righe che avevo scritto sul pessimo commento di Michelle Hunziker nei confronti della giornalista Giovanna Botteri. E penso che non ne parliamo a sufficienza, o quasi più, perchè l’attenzione si è spostata su quanto bisogna essere belle per stare su Tik Tok.

Detto ciò, l’unica cosa che credo mi abbia avvicinato ad uno pseudo femminismo da giovane, è stato trovare al mercatino una copia di Una Stanza Tutta Per Sè (1929), di Virginia Woolf (di cui si parla anche nel documentario Netflix). Indipendenza economica, libertà di pensiero, considerazioni sulla prevalenza maschile nell’ambito accademico e sull’arte della scrittura. C’era tanto da capire, tanto da fare, e sarebbe stato compito esclusivamente mio interessarmi alla faccenda. Sono poi uscita dal liceo con una tesi che abbracciava il ruolo decisivo delle donne in ogni singola disciplina di cui avrei parlato.

There is no gate, no lock, no bolt that you can set upon the freedom of my mind (V.W.)

Uno dei libri che mi ha cambiato la vita (Feminists: what were they thinking, Netflix)

Molte persone prima di Virginia hanno introdotto il concetto di cambiamento partendo dall’educazione, un tema sul quale non smetterò mai di dire la mia. So che anche i sistemi più civilizzati non sono in grado di fornire gli strumenti giusti, e so che in altri paesi una donna istruita è considerata pericolosa.

Gli estremisti temevano e temono ancora i libri e le penne. Il potere dell’istruzione li spaventa. Hanno paura delle donne e del potere della loro voce. Perchè temevano e temono ancora il cambiamento e l’uguaglianza che porterebbe alla nostra società. Malala Yousafzai (attivista pakistana), Nazioni Unite, 2013

Sapete cos’è il femminismo? Io non credo. Ho visto organizzazioni fasciste screditare sui social le femministe, descrivendole come relitti della società, recuperabili solo esclusivamente attraverso la violenza o l’educazione forzata. Ho letto commenti che auguravano la morte o lo stupro alle donne che prendono posizioni politiche. La parola vittima assume, non so perchè, una connotazione completamente distorta nei contesti dove ogni individuo si convince di dover necessariamente assumere una posizione. Una vittima è scomoda alla società nel 2021 esattamente come lo era negli anni ’60. La domanda quindi non è cosa sappiamo del femminismo, ma cosa stiamo scegliendo di dimenticare, incoraggiando involontariamente fenomeni sessisti pericolosi e dilaganti. Per esempio, sarebbe utile che la stessa istruzione pubblica lasciasse più spazio ai capitoli che hanno costruito il tessuto della nostra società in termini di libertà, diritti e voto.

Quando la Prescod elenca le manifestazioni a cui ha preso parte, cita il silenzioso fenomeno della sterilizzazione con prevalenza nelle donne nere che uscivano dagli ospedali spesso ignare della loro nuova condizione. Non si tratta solo di studiare o capire cosa si dicessero le donne durante i gruppi di supporto o i comizi, si tratta di capire i fatti in relazione al sistema, studiarlo e non sentirlo più estraneo. Ed è proprio nell’analisi dei progressi delle istituzioni, o nel loro ricorrere a forme di libertà più limitate (come nel caso della Polonia o delle Marche), che abituiamo la coscienza all’autenticità o al cambiamento. Credo alla fine, che il femminismo non abbia una data di scadenza.

Poi, se qualcuno poi dovesse miracolosamente trovare qualche edizione dei libri di Phyllis Chesler non tradotti in Italia, è pregato di chiamarmi subito.

Tutti i libri che vorrei leggere ora. (Feminists: what were they thinking, Netflix)

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